“Made in…”: istruzioni per l’uso.

Si sa che il riferimento al “territorio di origine delle merci” e, nella fattispecie, al made in Italy possa essere un fondamentale segnale di valore, o, addirittura, una base di posizionamento per un brand, come nel caso riportato in copertina.

Del resto, non tutti i brand possono permettersi di “giocare” su questo richiamo, oppure preferiscono sagacemente evitare, con artifici più o meno creativi.

Diciamo che la tematica è delicata ed ha a che fare da vicino con aspetti normativi e di carattere strategico.

Infatti, sul “chi potrà fregiarsi realmente del made in Italy” probabilmente nel prossimo futuro ci saranno importanti novità, soprattutto in alcuni settori, come la moda o l’alimentare.

Entrano poi in gioco elementi di consapevolezza strategica ed esigenze di filtro nella comunicazione di marketing, che hanno il loro peso sostanziale.

Per capirci, uno dei nostri casi di riferimento, Brunello Cucinelli, incarna il prototipo del brand di lusso made in Italy, con la sua eleganza style symbol, un po’ fuori dal tempo e, proprio per questo, destinato a rimanere “sempre verde”, a dettare codici e canoni di riferimento, non solo per quanto riguarda il design.

Del resto, la scelta di questa impresa è di posizionarsi su un concetto di “bello” e di “estetica” che riguarda molto da vicino fattori storici e culturali estremamente qualificanti di una certa Italia “che funziona”, senza dirlo in modo esplicito.

Diciamo che un aggancio valoriale c’é, ma non viene stressato.

Il discorso cambia molto se modifichiamo le coordinate dei brand considerati.

Andiamo, ad esempio, su Thun e Fiat.

Il caso Fiat è nell’occhio del ciclone in questo periodo per le note vicende sindacali, collegate all’assetto produttivo che l’azienda ha deciso per i suoi stabilimenti storici in Italia.

E’ chiaro a tutti che fatto cento il parco macchine dell’azienda torinese, una percentuale sempre più esigua in futuro potrà fregiarsi del cappello “made in Italy“.

Consapevole di questo, si è optato per l’etichetta “made in Fiat“, che sostanzialmente significa “pensato e progettato in Italia e realizzato altrove, con il presidio di Fiat“… Furbetti…

Sulla stessa lunghezza d’onda il brand emozionale Thun, appunto con il suo “made in Thun“, motivato dal fatto che la maggior parte della produzione avviene in Cina, mentre le attività creative e di marketing vengono gestite presso la sede, in Italia.

D’altra parte, è, questo, il modello della moderna (post-industriale) “impresa leggera” (1), che basa il proprio vantaggio competitivo su asset di natura intangibile.

Nell’ambito della varietà degli approcci al branding e, nella fattispecie, al “made in“, mi ha colpito molto nei mesi scorsi la scelta annunciata da Prada, che ha operato una sorta di “coming out“, a mio avviso geniale, venendo allo scoperto sul tema delle delocalizzazioni produttive.

Che in un comparto come quello della moda (anche di alta gamma) non può essere affrontato in modo miope ed aprioristico.

In sostanza, delocalizzare o fare outsourcing di importanti fasi produttive fuori dai confini nazionali può essere imprescindibile o quasi, ma questa cosa, lavorando bene sul branding, può diventare addirittura un fattore qualificante (anche nell’ottica della trasparenza di impresa), su cui far leva.

In questo modo, quindi, Prada, non solo contrasta le critiche sul “lusso made in Italy” non italiano o non interamente italiano, ma addirittura trasforma una possibile minaccia in opportunità.

L’idea dichiarata è di ricercare in tutto il mondo nicchie di eccellenza con cui collaborare per la produzione di parte delle proprie collezioni.

Che dire, un’idea che si vende benissimo

Nascono, così, le linee di kilt in lana e tartan “Prada Made in Scotland”, la maglieria in alpaca di “Prada Made in Perù”, gli abiti ricamati a mano, le calzature e le borse intrecciate “Prada Made in India” e i jeans “Prada Made in Japan”, realizzati in pezzi unici e personalizzabili.

Tutti i capi delle nuove linee saranno dotati di speciali etichette “trasparenti”, ciascuna dedicata al Paese di origine.

L’idea non fa una piega dal punto di vista del posizionamento, della difesa, anzi del potenziamento del brand, dello sfruttamento delle opportunità sul mercato internazionale.

Il punto sarà capire come verranno gestiti i rapporti con i fornitori, nell’ottica della partnership e della “prossimità strategica“.

E’ chiaro che in questi casi, ragionando in termini generali, l’azienda rinuncia ad un ancoraggio al territorio di origine, per acquisire un respiro “glocale”, ma comunque fortemente caratterizzato dal suo know-how e dal suo vissuto storico.

Da manuale, avanzato…

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4 commenti

  1. è un articolo interessantissimo!!! tuttavia è doveroso distinguere tra chi delocalizza in cina per “risparmiare” e chi delocalizza in cina perchè vuole una nicchia di eccellenza…mi sembra che l’output (il prodotto che arriva nelle mani del consumatore) sia completamente diverso!!! 🙂

  2. ciao Marco!
    cosa intendi per “chi va in Cina per ricavare una nicchia di eccellenza”?
    in ogni caso, io sono dell’idea che le aziende debbano avere la possibilità di andare a produrre dove gli pare, ci mancherebbe.
    l’importante è che rispettino le regole e che comunichino in modo molto chiaro “di che pasta sono fatte”, perchè il consumatore ha il diritto di fare le sue valutazioni.

  3. ciao Fulvio! mi sono rifatto all’articolo che hai scritto ed in particolare al punto “L’idea dichiarata è di ricercare in tutto il mondo nicchie di eccellenza con cui collaborare per la produzione di parte delle proprie collezioni.” Volevo dire che per un consumatore avere un prodotto made in india è sicuramente un plus se sa che l’azienda è andata lì per fare un prodotto di qualità in quanto utilizza il cashmere pregiato, viceversa non lo è se l’azienda ci è andata esclusivamente per delocalizzare la produzione risparmiando sui salari e tutto il resto. Questo deriva dal fatto che alcuni “made in” si portano inevitabilmente dietro accezioni negative e/o di scarsa qualità come ad esempio il “made in china”. La domanda è: come si fa a comunicare tutto questo al cliente? come si fa a differenziare il concetto di “made in”?

  4. Caro Marco, sì, infatti il punto è che il “made in” può avere diverse sfaccettature e che (nei casi migliori) comunque si tratta di una “promessa di valore”, che può essere sagacemente accompagnata da una scelta di “marchio ombrello” a livello internazionale, come ha fatto Prada. Da seguire…

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